Alberto Annibale
(da Bollettino Ordine degli Psicologi d'Abruzzo - Novembre 2000)
La "crisi della coppia" è, ahimè, una delle caratteristiche della civiltà postindustriale. Con questo non si intende sostenere che il fenomeno non sia mai esistito prima d' ora, ma che la differenza tra ieri ed oggi sembra risiedere nel fatto che, mentre un tempo la riservatezza (o il timore?) era più determinante nell'occultamento dei conflitti coniugali, il "democratismo" della coppia moderna libera le inutili ipocrisie soffocanti per avventurarsi nelle problematiche
relazionali, ritenendo che tali azioni si traducano, tout court, in un atto liberatorio, capace di riportare serenità e benessere all' interno della coppia e della sua prole.
Come nell'"apprendista stregone", l' avventurarsi in simili strategie, in presenza di personalità fragili o comunque non preparate, può condurre ad una destrutturazione irreversibile del rapporto senza che le parti ne abbiano reale intenzione.
La dinamica, che di solito sostiene tali comportamenti, sta nell' idea che, se la cultura contemporanea è basata sullo stato di diritto, il diritto di tutti si esercita col diritto del sé, confondendo una conquista sociale (lo stato di diritto) in una conquista individuale. Ne segue che la felicità è un diritto e non una conquista: "Se tu non mi dai la felicità, ho il diritto non solo di chiederla ma soprattutto di pretenderla da te". Questa richiesta, che si va consolidando nel bagaglio culturale del vissuto individuale contemporaneo, è ovviamente biunivoca e quindi tale da rendere la relazione della coppia moderna sempre più simmetrica e sempre meno complementare. Come dire: sempre più conflittuale e sempre meno collaborativa.
Non è questa la sede per analizzare i risvolti socio-economici che hanno influenzato l' interazione coniugale ma, tanto per farne un cenno, la logica del profitto, l' usa e getta del consumismo, la massificazione e quant' altro sono stati, e lo sono ancora, punti determinanti nella strutturazione della conflittualità della coppia.
Facendo riferimento a recenti ricerche, su cento coppie che contraggono matrimonio ce ne sono venticinque che si separano. Ma la situazione sarebbe ancora più grave se si tenesse conto, come i Parroci ben sanno, anche delle separazioni di fatto.
L' effetto sui minori di tali separazioni è, come ben sappiamo, stravolgente e portatore di disturbi più o meno gravi: ma sia ben chiaro, non è tanto la separazione a indurre il disturbo quanto quell' insieme turbolento di comportamenti che s' innescano quando il conflitto si incancrenisce nella spirale delle rivalse e dei rancori. Infatti non è la separazione a creare il disagio nel minore quanto la cronicizzazione del conflitto genitoriale. Mi viene in mente a tal proposito il titolo di un libro che D. Francescato ha pubblicato sull' argomento: Figli sereni di amori perduti.
E' luogo comune pensare che sia preferibile una separazione ad una convivenza litigiosa, ritenendo che sia sufficiente separare i contendenti per raggiungere la tranquillità; ma le cose non stanno esattamente così, perché non solo la litigiosità può riorganizzarsi per altre vie (la più comune è quella del ricatto sulle visite o dell' assegno di mantenimento trattenuto), ma il minore continuerà a subire una litigiosità più raffinata indotta dal genitore affidatario che, forte della sua insostituibilità nel vissuto del figlio, lo induce alla denigrazione più o meno latente del genitore assente: una denigrazione subdola e contraddittoria, a seconda dei contesti, che crea confusione, risentimento e sfiducia nel minore, predisponendolo ad un futuro di incertezza e di inadeguatezza.
La "civile separazione" è un evento raro anche se gli interessati, armati di buoni propositi "per amore dei figli", spesso si augurano che tutto possa rientrare in nome del perdono, del pentimento o, peggio, della convenienza.
La sola strada maestra che gli utenti italiani oggi conoscono per "risolvere la vertenza", è quella degli studi legali ove gli avvocati, sia pure in buona fede, sostengono il proprio cliente a svantaggio dell' altro, secondo la logica del "perdente-vincente" per la quale del resto sono stati preparati: vincere è il segno, legittimo, della loro bravura e del loro successo. Ma così operando, si alimenta e si esaspera un conflitto che si trasforma o in una guerra senza fine o, nel più debole, in una rassegnata sottomissione mal compensata dall' amaro pensiero: "Se non altro, non ci avrò più a che fare!".
Ed i figli? Se non hanno fatto in tempo ad averne, tutto bene (si fa per dire!) altrimenti cresceranno in un clima di guerre genitoriali e legali! Con quali conseguenze è facile immaginare.
La Co-Mediazione Familiare è un intervento alternativo alla via legale pur comprendendola, ma secondo modalità che tengono conto soprattutto del benessere psico-fisico dei minori.
Questo servizio sociale nacque in America per volontà di alcuni avvocati particolarmente sensibili alle problematiche infantili: alcuni di loro, per una "strana" coincidenza, erano anche psicoterapeuti familiari o comunque esperti in Psicologia dell' infanzia.
In Italia la Mediazione Familiare, pur essendo oggi in procinto di riconoscimento (la L. 285 del '97 ne fa esplicito riferimento), è stata esercitata, non sempre con basi adeguate di preparazione, dai soli laureati nelle varie Scienze Umane, escludendo tutti gli operatori delle Scienze Legali (se non con superficiali corsi informativi), frenando la promozione di questa specifica cultura che in tanto può essere raccolta in quanto onnicomprensiva delle scienze che la coinvolgono.
Difficilmente gli ex coniugi si affidano, per fare un esempio, allo psicologo per risolvere i loro problemi poiché questi problemi, nel momento feroce dello strappo relazionale, assumono le connotazioni pragmatiche dell' Interesse e del Diritto: ebbene solo la copresenza in Mediazione anche di un esperto in legge può, secondo la nostra esperienza, indurre entrambi i membri di una coppia ad affidarsi anche allo psicologo. Né, per deontologia professionale, noi psicologi possiamo dire: "Aspettiamo che passi loro la crisi, poi li accoglieremo in mediazione", al contrario, li avremo nel frattempo perduti ed avviati ad un esasperato confronto senza fine.
Restando in tema di deontologia professionale vista dalla parte degli avvocati, si rileva che quest' ultimi si trovano in evidenti difficoltà durante lo svolgimento delle loro procedure e resta difficile contenere i vittimismi dei loro protetti che scaricano su di loro le proprie aggressività,avanzando richieste improponibili nel contesto della legge.
Insomma come già si verifica in altri contesti operativi, anche in quello della mediazione familiare è necessario coinvolgere più figure professionali perché l' intervento sia significativamente utile agli utenti e non soltanto agli operatori: anzi, se vogliamo sfiorare questo tasto, un lavoro biunivoco fra psicologi ed avvocati esalta la qualità dei risultati e richiama un maggior numero di utenti, senza nulla, o ben poco, togliere agli studi legali tradizionali. Questi, al contrario, possono avvalersi del ritorno dei servizi di mediazione per l' omologazione dell' accordo raggiunto anche da parte di quelle coppie che, come per gli psicologi per l'altro verso, non si sarebbero mai rivolte ad un avvocato.
I Corsi di Formazione attivati dal Centro Se.Ra. hanno la caratteristica, unica nel settore, di formare operatori di diversa estrazione professionale che acquisiscono però una identica base d' approccio dei conflitti coniugali. Tanto per intenderci, la base comune introdotta dal Centro trova un' analogia nella matematica elementare quando riduce allo stesso denominatore frazioni diverse pur mantenendo in ciascuna di esse il valore che la distingue. Infatti detti corsi, della durata di due anni, adottano "pacchetti formativi comuni" alle due professionalità, alternandoli ad altri "differenziati" che permettono di compensare i vuoti specifici o di approfondire le competenze.
Da quanto esposto si può comprendere perché il Centro Se.Ra. ha fatto la scelta della Co-Mediazione Familiare e perché nella sua scuola si abilitano due figure di mediatori: il Mediatore Familiare ad indirizzo Relazionale ed il Mediatore Familiare ad indirizzo Legale.
Marco Guida, Magistrato della Sezione Civile del Tribunale di Brindisi
Premessa.
Da circa tre anni presso il Tribunale di Brindisi, seguendo un'indicazione da diverso tempo suggerita dal Consiglio Superiore della Magistratura, è stata istituita la figura del giudice istruttore unico addetto prevalentemente alle controversie inerenti lo status delle persone fisiche e, quindi, in massima parte, addetto alla trattazione delle cause di separazione e divorzio.
Sono stato, inoltre, delegato dal Presidente del Tribunale a tenere anche la prima udienza presidenziale di comparizione dei coniugi, sia nei giudizi di separazione sia in quelli di divorzio e faccio altresì parte del collegio di volontaria giurisdizione che ha competenza sui provvedimenti di modifica delle sentenze di separazione e divorzio (di cui agli artt.710 cpc e 9 l.div.).
Questo accorpamento di funzioni in capo ad un singolo giudice (in alcuni tribunali di più rilevanti dimensioni - ad es. Torino, Milano o di recente anche Roma - vi è un'apposita sezione) ha sortito rilevanti aspetti positivi ed ha contribuito a creare nuovo interesse, nell'ambiente giudiziario, e non solo giudiziario, su questa materia.
E' stato possibile, pertanto, sperimentare un differente approccio a queste controversie nonchè l'utilizzo di strutture altrimenti non considerate, sempre nel rispetto delle norme, e grazie alla collaborazione di gran parte del foro e di tutti gli operatori dei servizi sociali.
In attesa, infatti, che il legislatore ponga mano a questa delicatissima materia, io credo che vi sia lo spazio, nell'ambito delle attuali norme e pur con tutti i loro evidentissimi limiti, per affrontare queste controversie in maniera più concreta e più idonea agli interessi che le stesse coinvolgono.
Nel 'mare magno' della Giustizia, e dei suoi disservizi, io credo che si debba anche essere molto pragmatici e mirare, sempre nel rispetto delle norme e dei vari ruoli dei soggetti istituzionalmente interessati, al raggiungimento del risultato prefissato.
Qui, a mio modesto avviso, si tratta di raggiungere un risultato di importanza enorme, quello della tutela dei figli delle coppie separande o divorziande, specie e soprattutto quando i bambini sono ancora piccoli: non sono uno psicologo, ma solo guardando i bambini, solo osservandoli, si può capire ed immaginare cosa deve essere per loro avere un padre ed una madre che si separano e che, peraltro, lo fanno in maniera traumatica, plateale, totalmente irrispettosa di quelle piccole persone che nulla c'entrano e nulla dovrebbero c'entrare in quella guerra.
Per me questo vuol dire, oggi, tentare di introdurre nei procedimenti di separazione e divorzio la mediazione familiare: avere a disposizione un ulteriore strumento per tutelare i bambini.
E' per questo motivo che non sono granché d'accordo sul fatto che la mediazione dovrebbe essere solo volontaria: sempre da un punto di vista estremamente pragmatico, io ritengo che, ove vi sia una coppia consapevole del proprio conflitto ma talmente rispettosa del proprio ruolo genitoriale da volersi rivolgere spontaneamente ad un terzo non per cercare di sopraffare l'altro, di vendicarsi dell'altro o comunque, di vincere la propria personale guerra, ma per avere un aiuto per affrontare la crisi, allora a che serve il giudice?
Il problema è che devi far prendere consapevolezza alle persone di che cosa è la separazione, per loro ma soprattutto per i loro figli; che un conto è essere padre o madre in una famiglia unita, altro è esserlo in una famiglia separata.
Il genitore affidatario ha i suoi bravi problemi per far quadrare i conti in casa, conti non solo economici ma anche educativi, quello non affidatario ha il problema di sostituire la quotidianità del rapporto ed inventarsene un nuovo tipo.
Nessuno, nè giudice, nè avvocato, nè psicologo, nè prete possono sostituirsi ai due genitori, benchè separati, ed io credo che se la mediazione, nel suo primissimo passaggio, può servire anche soltanto a far capire questo ai due genitori, saremmo già a metà dell'opera.
E questo non può essere affidato alla volontà dei coniugi, alla loro maggiore o minore sensibilità, ma va in ogni modo incentivato perchè questo tipo di cultura si affermi, e se per fare questo io devo costringerli, perchè solo così posso sperare di ottenere un qualche risultato utile nell'interesse dei minori, io credo che non dobbiamo trincerarci dietro astratte considerazioni.
Tornando al nostro tema, allora, qual è l'attuale spazio della mediazione nelle controversie di separazione e divorzio?
Occorre dare un preventivo sguardo all'attuale normativa ed a come essa è applicata nella stragrande maggioranza dei tribunale italiani.
LA NORMATIVA VIGENTE
Mi sembra evidente come, mai come in questa fattispecie, la normativa vigente risenta dei retaggi storico-politico-culturali del legislatore che, nonostante i vari interventi anche rivoluzionari succedutisi negli ultimi trent'anni, si percepiscono fortemente ancora oggi.
Ciò si deve soprattutto alla mancanza di organicità del settore, che ha si subito trasformazioni epocali, ma non vi è mai stata una riorganizzazione complessiva, per cui convivono istituti ideati e pensati quando, ad esempio, il divorzio non era ancora ammesso nel nostro ordinamento giuridico con altri frutto dell'evolversi della cultura e della società.
Credo che un tipico esempio di ciò sia rappresentato proprio dal tentativo di conciliazione.
Nessuna norma del codice prevede la mediazione, nè poteva essere altrimenti, ma viene solo ossessivamente previsto il tentativo di conciliazione.
La normativa prevede, infatti, che innanzi al Presidente del Tribunale deve essere espletato un necessario tentativo di conciliazione dei coniugi, tentativo a cui sia la normativa sia la giurisprudenza annettono una importanza fondamentale nell'ambito di queste procedure, tale da farne derivare conseguenze giuridiche rilevantissime (ad es. nullità dell'intero procedimento se il tentativo non è stato espletato ab origine, pur se in ipotesi viene effettuato successivamente perchè il resistente si è costituito in giudizio solo più tardi per un vizio della notifica del ricorso).
In realtà questo tentativo di conciliazione è un mero simulacro: come può il Presidente del Tribunale, già oberato di mille altri incombenti, solo anche tentare di conciliare due persone che hanno alle spalle una storia decennale, ventennale o più; che litigano da mesi o anni; che chiedono al Giudice di essere sentite, di poter sfogare le loro ragioni, parlare dei presunti torti, delle vessazioni subite in tanti anni di matrimonio, ma tutto si deve svolgere in non più di dieci minuti perchè non c'è tempo.
E comunque, quand'anche ve ne fosse, cosa può fare il Giudice per tentare di 'conciliarli': non conosce niente della coppia, del loro vissuto, può solo cercare di acquisire qualche elemento utile in più che gli consenta di prendere dei provvedimenti presidenziali quanto più rispondenti all'effettiva realtà della coppia.
Non soddisfatto, il legislatore ha previsto che il tentativo di conciliazione debba avvenire nella separazione e nel divorzio, ed anche nelle procedure consensuali: i coniugi, in questo caso, sono d'accordo su tutto, vogliono separarsi, hanno concordato tutte le condizioni, hanno fretta di ricominciare la loro vita, ma il Presidente del Tribunale deve egualmente tentare di conciliarli prima sentendoli separatamente e poi congiuntamente.
Non è finita qui.
Con la recente Novella al codice di Procedura Civile è stato introdotto, in analogia a quanto previsto nel Processo del Lavoro, un tentativo di conciliazione che il giudice istruttore deve effettuare nella prima udienza di trattazione ed a cui le parti non si possono sottrarre.
Poichè l'interesse del legislatore per le procedure di separazione e divorzio è altissimo, non ha ritenuto di prevedere alcunchè per queste cause la cui fase istruttoria è necessariamente preceduta da un'udienza in cui vi è già un tentativo di conciliazione: dopo essere stati innanzi al Presidente del Tribunale i coniugi dovrebbero ricomparire innanzi al giudice istruttore (persona fisica quasi sempre diversa dal Presidente del Tribunale) e di nuovo ritentare una conciliazione.
Il giudice istruttore, poi, durante tutta la fase istruttoria può in qualunque momento disporre la comparizione dei coniugi ove ravveda la possibilità di una conciliazione: in quest'ultima ipotesi è evidente che se i coniugi si sono riconciliati non hanno alcun interesse a ricomparire innanzi al giudice ma la causa verrà cancellata, mentre hanno interesse a comparire solo per trasformare la controversia in consensuale.
Segue, poi, tutta la fase istruttoria che è quasi sempre complessa, faticosa: si tratta in massima parte di sentire i parenti di lui o di lei, in una versione, perennemente aggiornata ma sempre uguale, del famoso film 'Kramer contro Kramer' che, però, ha ad oggetto quasi sempre non i problemi degli eventuali figli minori, ma le presunte infedeltà, o le violenze materiali, o gli abbandoni o i silenzi consumatisi nelle mura domestiche.
E non è ancora finita.
Una volta terminato il giudizio di separazione, non c'è neanche il tempo di rifiatare che, via!, si ricomincia tutta da capo con il divorzio che è una perfetta fotocopia del primo.
Ogni procedimento di separazione (o di divorzio) per il giudice è spesso una seccatura: il giudice civile è abituato a trattare le controversie attraverso il comodo e rassicurante filtro degli avvocati; quasi mai conosce personalmente le parti ed in quelle rare occasioni in cui sono presenti possono assistere al processo ed alla sua istruttoria, per espressa previsione normativa, in disparte, buoni buoni senza dare troppo fastidio.
Nei giudizi di separazione, invece, quasi sempre i coniugi presenziano ad ogni udienza, sono sempre lì, a verificare, controllare, discutere di ogni cosa.
Questi processi, inoltre, normalmente si confondono nell'ambito della altre mille procedure che ogni magistrato ha in assegnazione e spesso vengono trattate alla stessa stregua con le inevitabili conseguenze che si possono immaginare.
I processi, così, spesso durano tanto, troppo, incentivando quel fenomeno di 'infantilizzazione' della coppia che tende ad aspettare la prossima udienze per poter affrontare ogni più piccolo problema, nella certezza di avere giustizia, riponendo in altri, l'avvocato, il giudice, la risoluzione di ogni più piccolo problema che, in tempi normali, avrebbe affrontato senza batter ciglio.
Ed il giudice o l'avvocato spesso non possono, spesso non vogliono, alcune volte non sanno, affrontare questa tempesta di sentimenti: il diritto, quando si vuole, è freddo, è 'nudo e crudo' e non tollera sentimenti.
Noi ci troviamo di fronte a persone smarrite, frastornate, confuse, arrabbiate, impaurite:
·ci sono le donne che hanno dedicato venti o trent'anni, una vita!, alla famiglia, ad accudire casa, marito, a crescere i figli e che, improvvisamente, scoprono che il marito ha un'altra donna, da anni, più giovane di lei, ha un'altra famiglia, a volte altri figli: è un mondo che crolla, dove non ci sono più sicurezze, nè affettive nè economiche.
·Vi sono le giovani coppie che non sono riuscite a superare le prime difficoltà del vivere insieme e vengono risucchiate dalle famiglie di origine, coppie che hanno messo al mondo figli che sono ancora piccolissimi e che corrono il rischio di scambiare nella loro vita il nonno per il papà.
·Vi sono i giovani padri, consapevoli del rilevante rischio di perdere ogni contatto con i propri figli; rischio di vedersi messi fuori di casa in brevissimo tempo lasciando quelle poche cose in comune che erano riusciti a costruire insieme, con l'onere di doversi fare ulteriormente carico dell'intera famiglia e di sostenere se stesso.
·Vi sono quelle coppie anziane che non si parlano da anni, dove il conflitto deflagra quando anche l'ultimo figlio si è 'sistemato', quando anche l'ultimo anello di protezione di un rapporto oramai di pura convenienza è venuto meno.
La tipologia è vastissima, ma quasi sempre ha in comune il senso di smarrimento, l'incertezza del futuro.
Viste sotto questo profilo le norme sono paurosamente inadeguate ed anche pericolose: si tende a demandare al giudice, ma anche all'avvocato, un compito che non è il suo.
Il giudice non può essere psicologo, assistente sociale o anche soltanto amico: il giudice deve decidere ed oggi lo fa solo in base a quello che gli dicono le parti, a quello che traspare da un velocissimo colloquio di massimo dieci minuti, quando ne trovi uno paziente, di giudice.
Senza alcun'altra informazione il Presidente del Tribunale assume i primi provvedimenti provvisori, che non sono poi così provvisori.
Questa ordinanza cala come una mannaia sulla coppia, sarà la loro futura regola di vita; regolamenterà i loro rapporti per il futuro; sarà il muro dietro cui nascondersi per evitare qualsiasi ulteriore contatto ... '... così ha stabilito il giudice ...' è la frase ricorrente per evitare anche soltanto di parlare con l'altro coniuge.
Ma i casi della vita sono infiniti, i problemi altrettanto e l'ordinanza presidenziale non può prevedere tutto e il contrario di tutto, ma si deve, o dovrebbe, limitare solo alle statuizioni essenziali perchè per il resto, e soprattutto per quel che concerne i figli, dovrebbero essere loro, i genitori, a continuare ad essere tali.
Una nota: che tragedia l'affidamento monogenitoriale così come attualmente previsto dalla normativa!
Da un lato stimola nel genitore affidatario il senso di onnipotenza e possesso, di esclusività, di vita e morte del figlio, di vittoria sull'altro.
Dall'altra parte è un comodo escamotage per defilarsi, per, bene che vada, fare il genitore del fine settimana, quello che gioca, quello deresponsabilizzato.
Non so se l'affidamento congiunto sia la soluzione, certamente è un passo avanti considerevole, anche solo sotto il profilo culturale, pur se potrebbe acuire la mini conflittualità tra i coniugi separati.
Un ultima annotazione, infine, nella descrizione del quadro normativo attuale merita la problematica relativa alla sussistenza di più giudici che si occupano del diritto di famiglia.
Nell'ambito, infatti, di un settore della società che, secondo un famosissimo giurista, è "un'isola che il mare del diritto avrebbe dovuto solo lambire", assistiamo ad una impressionante proliferazione di giudici di tutti i tipi che se ne occupano, affogando del tutto l'isola.
Vi è, infatti, la competenza del giudice della separazione, del divorzio, del giudice penale, del giudice tutelare, del Tribunale per i Minorenni etc. ognuno con una sua piccola competenza che ritaglia come un puzzle la famiglia.
Basti dire che se due persone hanno avuto la sventura di dire si davanti ad un prete o all'Ufficiale dello Stato civile, dovranno separarsi innanzi al Tribunale Ordinario che deciderà delle sorti della loro prole; se invece hanno procreato senza aspettare il fatidico si, allora se la dovranno vedere con il Tribunale per i Minorenni.
UN ESPERIMENTO POSSIBILE
Nell'ambito di questo non esaltante quadro normativo, e di fatto, vi sono possibili spazi di intervento aspettando che il legislatore si dia una mossa?
L'art.155 codice civile prevede che il giudice possa adottare ogni provvedimento nell'interesse della prole.
Non siamo ancora ai 'provvedimenti creativi' tipici dei paesi di Common Law anche perchè manca il contraltare, cioè la punizione per l'eventuale inosservanza dell'ordine del giudice. In alcuni paesi vi è il reato di 'disprezzo alla corte' che consente punizioni assai severe e, soprattutto, fantasiose, mentre da noi anche se si dovesse essere sanzionati per violazione dell'art.650 c.p. vi sarebbero i vari benefici di legge e, comunque, attese le lungaggini processuali interverrebbero troppo tardi.
E' essenziale, infatti, rammentare L'IMPORTANZA DEL TEMPO per quel che concerne i bambini: sei mesi per un bambino di tre anni corrispondono a dieci anni per una persona di 60 anni!
E' per questo che l'intervento in queste materie deve essere rapidissimo, tempestivo, direi immediato, altrimenti è del tutto inutile ed il processo, così come è oggi, non garantisce tale tempestività, anzi tutt'altro.
Ritornando all'art.155 c.c. ritengo che esso sia una sorta di 'norma civile in bianco' che consente al giudice di adottare provvedimenti di varia natura e tipologia, sempre e solo per tutelare l'interesse dei minori e l'eventuale inosservanza, oltre alle richiamate ed inutili sanzioni penali, può essere poi valutato ai fini, ad es., dell'affidamento dei figli.
Nella provincia di Brindisi abbiamo trovato un accordo con il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati nonchè con la locale A.U.S.L. incentivando l'intervento degli operatori consultoriali.
In pratica, nel momento in cui viene depositato il ricorso per separazione giudiziale o per divorzio giudiziale, il Presidente fissa l'udienza di comparizione (normalmente vi un lasso di tempo di almeno tre mesi dal momento del deposito alla fissata udienza, ma in alcuni tribunale si superano anche i sei mesi) e contestualmente, nei casi in cui vi siano figli piccoli o siano segnalate situazioni particolari (tossicodipendenza, alcolismo, violenze, interventi del T.M.) viene sollecitato l'intervento del C.F. territorialmente competente.
Gli operatori del C.F., non appena giunge la comunicazione da parte del Tribunale Ordinario, provvede a convocare i coniugi e ad effettuare la prima indagine sociale.
Per ovviare ad eventuali critiche in ordine ad una sorta di 'eccesso di delega' da parte del giudice, unitamente al Consiglio dell'Ordine degli Avvocati ed agli operatori consultoriali, si è provveduto ad elaborare una sorta di 'decalogo' su quello che gli operatori devono e possono fare.
Segue decalogo.
L'obiettivo è ridurre quel pericolosissimo periodo, tra il deposito del ricorso e la prima udienza presidenziale, una sorta di terra di nessuno dove i coniugi tendono ad acquisire una posizione di forza da far valere poi nella sede istituzionale.
E' anche un chiaro messaggio: vi è un tempestivo, quasi immediato intervento delle istituzioni sempre a tutela dei minori.
E' questo, un primo tentativo di mediazione: gli operatori, infatti, hanno il principale ed essenziale compito di far comprendere alla coppia il senso della separazione e cercare di suggerire loro ogni utile intervento o iniziativa sempre e soltanto nell'esclusivo interesse dei minori, sollecitandoli a trovare un accordo soprattutto per quel che concerne i figli.
La relazione sarà poi inviata tempestivamente al Presidente del Tribunale, prima dell'udienza di comparizione dei coniugi, al fine di offrire allo stesso non elementi di prova, ma ulteriori elementi di valutazione, con la descrizione della situazione della coppia e dei minori e degli eventuali accordi raggiunti: la relazione è, ovviamente, posta a disposizione delle parti.
Ove la situazione sia chiara e non vi sia ulteriore bisogno dell'intervento del C.F., l'intervento consultoriale termina lì; ove invece la situazione permanga conflittuale e via sia ulteriore necessità di approfondimento, il Presidente, o il giudice istruttore, può specificare e delimitare il campo di indagine e di intervento.
Sono ovviamente molti i problemi, anche di natura strettamente processuale, che queste modalità di intervento comportano e, sicuramente, non sono risolutive delle varie problematiche.
Questo però ha determinato un incremento delle separazioni consensuali, soprattutto di trasformazioni da giudiziali in consensuali; possibilità di sperimentare, ad es., l'affidamento congiunto anche quando non vi è la concorde volontà delle parti.
E' noto, infatti, che i miei colleghi, per evitare seccature, hanno elaborato la raffinata teoria in base alla quale l'affidamento congiunto non può essere disposto se non vi è accordo delle parti.
Qui torniamo a quanto detto in merito all'obbligatorietà o facoltatività dell'intervento di mediazione: se le parti sono d'accordo, se hanno raggiunto una maturità tale da addirittura concordare una separazione con l'affidamento congiunto, il giudice a che serve?
La legge, poi, dice che è possibile disporre tale tipo di affidamento, senza in alcun modo specificare come e quando o ponendo cervellotiche limitazioni.
E' indubbio che l'affidamento congiunto, attesa la sua natura piuttosto teorica, può determinare, soprattutto nei primi tempi, un elevato tasso di conflittualità su tutte le piccole questioni fino a quando la coppia non raggiunge un equilibrio. Per far questo è necessario un intervento sempre tempestivo del giudice e, soprattutto, un intervento mediativo degli operatori consultoriali cui affidare la coppia.
Con questo tipo di intervento sono cresciute le domande di affidamento dei figli da parte dei padri: quest'ultimi si lamentano che nel 95% dei casi il giudice affida i figli alla madre, ma poi, alla prova dei fatti, almeno dalle nostre parti, si scopre che i padri fanno richiesta di affidamento solo nel 6% dei casi!!!
Egoisticamente parlando non dovrei essere contento dell'aumento delle richieste di affidamento da parte dei padri, perchè ciò si traduce in un aggravio della conflittualità e, quindi, del mio lavoro.
Ed invece ciò dimostra un timido cambiamento nel costume, nella cultura: il padre non è quella figura purtroppo squallida che emerge dalla maggior parte delle cause di separazione, inerte, disinteressato delle sorti dei figli, anche economiche o di autentica sopravvivenza, ma inizia ad avere coscienza di essere una parte altrettanto essenziale nella vita dei suoi figli.
Sarà, infine, un caso ma, ad esempio, nel 1998, in controtendenza, con il resto dell'Italia, il numero complessivo delle cause di separazione e divorzio nella provincia di Brindisi è diminuito e, comunque, si sono fortemente incrementate le procedure consensuali.
Un ulteriore positivo effetto: in tutti questi anni non si è mai ricorsi alle consulenze tecniche di ufficio.
Non voglio demonizzare tale strumento processuale: posso solo dire che da un lato esso è comunque un costo e dall'altro spesso per il giudice è una via di uscita, un demandare ad un altro la patata bollente, specie in controversie del genere dove è difficile, è impossibile, è opera direi sovrannaturale stabilire chi è il genitore 'più buono'.
Non solo.
Tale risultato ha il perverso effetto di atto direi conclusivo della guerra, ancora maggiore rispetto ad un eventuale decisione del giudice, ed è visto come una vittoria o una sconfitta, impatto psicologico da cui è piuttosto complicato uscire.
LE POSSIBILI RIFORME
Sotto un profilo strettamente giuridico io credo che sia assolutamente indispensabile riportare ad unità tutta la materia del diritto di famiglia creando che 'giudice della famiglia' così come da anni auspicato.
Qui si fronteggiano due grandi scuole di pensiero tra chi vuole ampliare le competenze dei T.M. e che, invece, vuole creare delle sezioni specializzate nell'ambito dei tribunale ordinari.
Non so esattamente cosa sia meglio, ma credo che il dibattito sia in corso da troppi anni e che una soluzione andrebbe trovata.
Nelle more, approfittando della riforma del giudice unico di primo grado, potrebbe essere incentivata la creazione, presso ogni tribunale, di una sezione, o di uno o più giudici, che abbiano esclusiva competenza in materia, comprensivo delle tutele: l'allargamento degli organici degli uffici giudiziari in conseguenza della riforma dovrebbe poter favorire questo progetto, già in qualche modo caldeggiato nelle sue circolari dal C.S.M.
La materia, poi, andrebbe quanto più possibile degiurisdizionalizzata: penso, ad esempio, alla materia dei divorzi congiunti in assenza di figli (che in Francia, ad es., vengono trattati in via amministrativa).
La mediazione, poi, andrebbe istituzionalizzata: conosco le perplessità degli addetti al settore e, soprattutto, dei pionieri della mediazione, ma ritengo che debba esserci un giusto 'mix' tra le legittime preoccupazioni degli operatori-mediatori e le aspettative del mondo giudiziario.
Io ritengo che l'intervento del giudice deve pur sempre rimanere, ma che esso debba essere necessariamente preceduto da una fase di riflessione che la coppia deve effettuare in un ambiente che non può essere quello giudiziario: in tempi ragionevoli, poi, il conflitto potrebbe essere portato innanzi al giudice o perchè ratifichi le intese raggiunte o perchè assuma la decisioni di legge.
Se poi, nonostante tutto, il conflitto prosegue, e nel corso del giudizio le parti dovessero richiedere l'intervento del mediatore, allora potrebbe disporsi la sospensione del processo così come previsto dal disegno di legge licenziato dal Comitato ristretto e che ancora giace da un anno e non si dà pace.
Isabella Buzzi, Presidente del Forum Europeo
La mediazione dei conflitti è stata definita in molti modi, anche molto complessi e molto ricchi, ma c'è una definizione semplice e immediata: 'è la gestione delle negoziazioni altrui'.
Un mediatore entra a far parte di una relazione conflittuale, in atto per aiutare le persone che si trovano bloccate nelle proprie dinamiche relazionali a causa di una cattiva gestione della loro conflittualità, perché queste possano sbloccare la relazione, superare gli ostacoli ed eventualmente giungere ad accordarsi.
In genere infatti la mediazione dei conflitti viene adottata in tutti quei casi in cui la continuità della relazione tra le parti in lite è più importante e necessaria rispetto alla volontà di far rivalere un diritto o un interesse; ecco perché la mediazione familiare nei casi di separazione o di divorzio è uno strumento prezioso per sbloccare i conflitti tra genitori.
Questo processo di mediazione si svolge in parallelo su due versanti: quello della gestione delle emozioni dei partecipanti e della conflittualità emergente durante le loro negoziazioni , e quello della conduzione e formulazione dei contenuti delle trattative e quindi degli eventuali accordi .
Sembra che questi due versanti siano appannaggio di professionisti diversi: gli psicologi si interessano ad esempio del ruolo della rabbia e della volontà di vendetta nella gestione della conflittualità, del processo di elaborazione della perdita del coniuge, del transfert e del contro-transfert nel processo di mediazione, del processo di guarigione interiore connesso alla mediazione di divorzio, dell'opportunità dell'inserimento dei figli nella mediazione familiare, delle dinamiche di potere e del loro riequilibrio nella gestione delle trattative, dell'imparzialità o neutralità del mediatore, della sua direttività, ecc. I giuristi si interessano invece di argomenti quali: il facilitare le negoziazioni degli aspetti tributari nella separazione patrimoniale dei coniugi, la correttezza legale e la correttezza etica degli accordi, metri di valutazione della bontà degli accordi delle parti, l'identificazione e la gestione della moltiplicità degli interessi nelle negoziazioni, implicazioni professionali e ruolo del mediatore in eventuali cause successive al fallimento della mediazione, ecc. E' tuttavia possibile notare come in mediazione questi versanti si presentino, se possiamo usare una metafora, come le ruote di una bicicletta, l'una aiuta l'altra a muoversi: una spinge, l'altra dirige, ma insieme esse sono fondamentali e, tornando alla mediazione, ci permettono di raggiungere l'accordo.
Anche a livello formativo i formatori di matrice giuridica sono in genere attenti ad elementi diversi e complementari rispetto ai formatori di origine medico-psicologica.
Il Forum Europeo Formazione e Ricerca in Mediazione Familiare, che è una associazione composta da più di 75 centri di formazione di sette paesi d'Europa, si sta proponendo di accrescere la qualità dei mediatori familiari europei in uno scambio di esperienze che ha condotto alla formulazione di Standard di Base per la Formazione dei Mediatori Familiari. E' stata caldeggiata dal Forum Europeo l'interdisciplinarietà della formazione vista come momento di reciproca conoscenza e di scambio tra il mondo giuridico-legale e quello psico-sociale sia al livello di partecipanti che a livello di formatori.
Attualmente si ritiene che l'avvocato possa avere tre possibili impatti sulla mediazione: o la osteggia, o rimane neutrale, oppure collabora con il mediatore. In realtà sono molti gli avvocati che incoraggiano il processo mediativo e sono in pochi quelli che l'ostacolano e sovente ciò accade meno intenzionalmente o deliberatamente di quanto non si possa interpretare. Nonostante questo ciò che forse occorrerebbe incominciare a valutare sono i problemi che gli avvocati possono causare e che rendono il loro atteggiamento classico dannoso al processo di mediazione in corso: la difesa del cliente che delega il proprio problema all'esperto legale e la tutela degli interessi del cliente stesso.
Lo stile adottato dagli avvocati per perseguire gli scopi appena tracciati, dipende dalla visione della lite: ci sono coloro che amano la lotta aperta e ad oltranza e che vedono come unica soluzione la vittoria sul nemico, ci sono quelli che temono la definitiva chiusura della causa perché continuano a sperare in un migliore accordo per il proprio cliente, ci sono quelli che si identificano nella posizione di paladini degli oppressi e dei più deboli e che quindi si fanno pieno carico anche della simbologia sociale espressa dal problema dei clienti, coloro che perdono le battaglie per vincere le guerre e quindi 'costi quello che costi' perché bisogna vincere la guerra, quelli che credono in una dicotomica divisione del mondo in buoni e cattivi e che pensano che i buoni trionferanno, coloro che si trincerano dietro cavilli legali per primeggiare sulla vicenda delle parti e quindi considerano la conclusione dell'accordo di secondaria importanza, quelli che devono sempre avere sotto controllo la situazione e che quindi non possono essere mai lasciati 'fuori dalla porta', e, più semplicemente, i cattivi avvocati (Watson, 1997).
In genere il mediatore-terapeuta afferma:
Io so come aiutare le persone a comunicare e come riconferire loro il potere e l'abilità perché risolvano in prima persona i loro problemi personali e familiari legati alla separazione o al divorzio. Gli avvocati vogliono sempre avere il controllo sulle persone e risolvere i problemi della gente nel modo in cui essi stessi pensano che dovrebbero essere risolti. E poi essi non sono in grado di gestire le emozioni più intense che spesso emergono in questi casi. Inoltre la mia formazione professionale è stata tale da concedermi una certa familiarità con le problematiche legali che riguardano i miei pazienti.
Il mediatore-avvocato afferma invece:
Le persone che non hanno una formazione legale e vogliono operare come mediatori sono come dei 'paramedici legali': non mi farei certo operare da un paramedico! Io non sono uno di quei mediatori 'sensitivi' e inconcludenti: mi adopero affinché i clienti arrivino ad un accordo concreto e omologabile in Tribunale.
Il mediatore-pedagogista afferma:
Occorre focalizzarsi moltissimo sulla pars construens della mediazione. Io parlo lo stesso linguaggio dei genitori e so bene quali sono le questioni più importanti da discutere. Le persone nelle negoziazioni costruttive devono poter discutere e affrontare direttamente i conflitti, non hanno bisogno di qualcuno che li tenga per mano e che li faccia sentire meglio come fanno gli psicologi; e gli avvocati in mediazione non possono dare aiuti legali, quindi perché la legge dovrebbe essere così dominante in questi casi?
Un giudice-mediatore potrà affermare:
Chi ha la formazione, l'esperienza e la qualifica più adatta per risolvere in modo imparziale queste dispute se non un Giudice? Io so cosa occorre per portare le parti ad un accordo giusto e rispettoso delle leggi.
Chiunque scelga una professione, la 'sposa'. E in questa posizione si sente proprio come qualsiasi coniuge: conosce meglio di chiunque altro i pregi e i difetti della propria professione, quindi si avvicina alla mediazione con aspettative e intenzioni diverse, dettate dal proprio 'matrimonio' professionale.
Lo psicologo, che come Consulente Tecnico del Giudice in genere si trova di fronte a scelte difficili, se non quasi impossibili è senz'altro il più preparato a identificare le dinamiche in atto nella situazione familiare che gli si presenta, tuttavia sovente si sente forzato in un ruolo che non gli permette di utilizzare tutto il potenziale terapeutico che la propria professione gli concederebbe e si trova costretto dalle procedure legali a 'limitarsi' nei termini delle disposizioni d'affido. Lo psicologo o il terapeuta, vedono nella mediazione familiare una grande risorsa per la tutela dei minori, in quanto essa riconferisce responsabilità alle parti affinché arrivino a ristrutturare positivamente i ruoli genitoriali. Anche il pedagogista si ritrova in quest'ottica in qualità di esperto educatore. L'assistente sociale, sommerso da problemi di tutti i tipi, vedrebbe positivamente l'acquisizione di una competenza nuova che lo aiuti a risolvere con maggiore dimestichezza almeno i problemi delle coppie in crisi. Psicologi, terapeuti, pedagogisti e assistenti sociali, sono tuttavia più o meno diffidenti nei confronti della propria capacità di gestire efficacemente e con professionalità il lato economico e patrimoniale delle trattative, in quanto sentono di addentrarsi in un settore complesso e cavilloso: da esperti.
L'avvocato, che sovente si sente schiacciato dalle procedure, dalle lungaggini burocratiche e formali, dalla scarsa sensibilità e capacità di alcuni colleghi che solo occasionalmente si avventurano nel Diritto di Famiglia, vede nella mediazione familiare un metodo più agile e più snello, oltre che più discreto e più personale, per portare le parti ad un accordo. Teme tuttavia di non avere quella preparazione professionale per identificare e agire sulle dinamiche relazionali e emozionali che le parti potrebbero portare in mediazione e che potrebbero bloccare le trattative: occorre un'altro esperto che possa affiancarlo nella gestione di questi aspetti.
Anche il giudice nonostante sia portato a riconoscere la forza impositiva del proprio ruolo all'interno della causa, amerebbe riconoscersi mediatore: colui che porta il buon senso e la forza della realtà all'interno del caos. Ma il tempo a sua disposizione è scarso e se le parti non si presentano già propense ad 'acconsentire', occorre un altro esperto che possa lavorare per aiutare la coppia a raggiungere il consenso.
Queste, anche se ovviamente molto semplificate, sono le aspettative e i timori di coloro che abitualmente operano con le coppie in crisi o divise. Sono aspettative e timori che si riscontrano anche nei partecipanti ai corsi di formazione alla mediazione familiare e sovente la loro scelta non è quella di 'separarsi' dalla professione d'origine, ma di arricchirla con una competenza nuova, quella di mediatore.
La relazione del mediatore con le parti tuttavia non è più quella dell'esperto tecnico: in qualità di esperti psico-relazionali, legali, sociali, educativi, relazionali, essi debbono emettere un giudizio relativo ai contenuti della separazione: a chi spetta la casa? Con chi vivranno i figli minori? A quanto ammonterà l'assegno' Quante volte e dove verrà esercitato in diritto di visita del genitore non affidatario? E così via.
Anche il mediatore è a suo modo un esperto ed emette un giudizio, ma si tratta di una valutazione sui processi: egli constaterà l'effettivo impegno delle parti, oltre alle potenziali capacità, di risolvere il problema. Alle domande precedenti dovranno rispondere le parti stesse.
Questa è la principale difficoltà, comune sia a psicologi che ad avvocati: come bloccare quell'automatismo che fa parte del proprio sistema di riferimento professionale, e essere 'solo' mediatori?
Diverse sono le possibilità. C'é chi sceglie di abbandonare definitivamente la precedente professione e di 'sposare' la mediazione familiare (sempre che possa permetterselo), e lavorare molto su di sé per far funzionare il 'matrimonio'.
Nel lavoro di auto-analisi ci sono delle domande che il mediatore può porre a se stesso nel condurre il processo di mediazione per accertarsi della propria neutralità, della propria ipotesi di lavoro, del proprio ruolo e una di queste è: 'E' il mediatore in me che sta ponendo questa domanda/facendo questa affermazione, o è il terapeuta? Oppure è l'avvocato? O ancora è l'educatore? O il giudice? Insomma, chi'?.
Inoltre occorre ricordare che, come è tra l'altro sottolineato anche negli accordi del Forum Europeo, occorre sottoporsi a supervisione professionale e ad aggiornamento formativo. La supervisione, o accompagnamento professionale è un momento fondamentale per la condivisione dell'esperienza professionale oltre che per mantenersi 'centrati' e sereni nello svolgimento della propria pratica professionale. Il contatto collaborativo con altri professionisti permette inoltre un continuo aggiornamento in tempo reale, necessarissimo nel trattare in senso globale una realtà complessa come quella della famiglia. Per esempio, in un paese dove il sistema tributario è di così difficile interpretazione e in così rapido mutamento, è caldeggiabile una buona collaborazione anche con ragionieri e commercialisti.
Se il mediatore per precedente formazione è uno psicologo, la collaborazione con i professionisti legali potrà avvenire a distanza: il mediatore creerà una rete di supporto attorno al proprio studio basata sulla conoscenza e sulla gestione positiva dell'impatto dell'avvocato e degli altri professionisti sulla mediazione e sul rispetto della loro funzione all'interno della gestione delle coppie in crisi (Jacob e Bell, 1994).
Un'altra soluzione é quella di regola adottata dai colleghi tedeschi: la co-mediazione, ovvero due mediatori che collaborano in parti uguali e che sono l'espressione di un lavoro di équipe fra avocati e psicologi (co-mediazione interdisciplinare), i quali sorveglieranno a vicenda il rispetto del mandato, ossia il raggiungimento di un accordo volontario fra le parti che possa essere legalmente riconosciuto e non una consulenza legale o un arbitrato, ma neanche una terapia, anche se il mediatore-psicologo potrà favorire un processo di esplorazione, di catarsi e di cambiamento.
Il vantaggio è che i due professionisti, senza abdicare alla propria professione d'origine, ne possono fare un punto di forza e utilizzare in modo complementare la loro diversa percezione e definizione dei problemi, ma i vantaggi della collaborazione non sono tuttavia automatici (Buzzi, 1992; pag. 179).
Una collaborazione ad hoc che si basi sulle risposte intuitive e sul sostegno morale, più che sugli interventi pianificati, presenta numerose trappole. Occorre avere ben chiaro e nella stessa misura il modello di mediazione, oltre che la base teoretica che intenderanno usare e i loro rispettivi ruoli all'interno di quel modello. Occorre accertare e riconoscere per gestire le differenze di età, di esperienza professionale, di sesso, essere in situazione di fiducia e saper affrontare le differenze di opinione senza discutere di fronte alle parti. Occorre tempo prima e dopo le sedute per pianificare e verificare l'approccio e le strategie adottate, sia che si tratti di una partnership alla pari, sia che si tratti di supervisione dal vivo (Parkinson, 1995; pagg. 100-101).
Molto dunque, come è stato possibile osservare, è da ricondursi ad una corretta e specifica formazione, che permetta ai professionisti di affrontare con successo e con serenità la mediazione familiare e che diffonda lo spirito di interdisciplinarietà e di rispetto interpersonale che caratterizzano questo istituto.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Cosa ne pensate dell'attuale formulazione delle scuole di specializzazione?
Intervista ripresa da
"Professione Psicologo"
in relazione alle scuole di Formazione
Mediazione Familiare
Prof. Sarchielli: Secondo me, il discorso delle scuole di specializzazione merita di essere considerato più a fondo nell'ottica della riforma universitaria. Certo chi l'ha detto che la specializzazione deve essere quadriennale?
Fortunatamente il quadriennio non c'è nemmeno nella legge per i concorsi del servizionsanitario nazionale. Tant'è vero che noi stiamo ragionando, con Cigoli e altri all'internodella conferenza fra presidi, su dei prototipi biennali di scuola di specializzazione.
Per esempio, psicologia del ciclo di vita, psicologia della salute e valutazione psicologica, che sono le nostre tre specializzazioni ufficiali del settore insieme alla psicologia clinica, sono state pensate come quadriennali.
Chi ha deciso che psicologia del ciclo di vita doveva essere quadriennale? Perchè addirittura deve abilitare alla psicoterapia? E' proprio quella l'area di intervento prioritaria? Ha veramente senso una tale durata?
Noi stiamo attualmente ragionando sulla scuola di specializzazione in psicologia sociale applicata (nessuno se l'era ricordato all'epoca in cui hanno riordinato le cose). Stiamo progettando di riordinarla, senza cambiare il titolo per non avere complicazioni, in modo da avere una scuola di specializzazione che riguardi il settore della psicologia del lavoro e dell'organizzazione, la psicologia delle condotte economiche e della comunicazione pubblicitaria, e la psicologia dell'orientamento scolastico e professionale.
Quest'ultimo è un settore nel quale in Italia da quindici anni non si fa più niente. Adesso tutti si mettono in bocca la parola "orientamento" senza ricordarsi che l'orientamento è qualche cosa che fa parte della psicologia: perche deve essere di altre discipline?
E' possibile pensare concretamente a dei progetti per le scuole di specializzazione universitarie?
Prof. Cigoli: Vorrei dire un paio di cose, perché noi abbiamo preparato alcune idee, alcune proposte.
Prima cosa: i tempi di formazione.con sarchielli abbiamo discusso questa cosa, siamo andati a verificare perché tutto è bloccato dalla rigidità di un ordinamento che sembrava impedirci di muoverci con una certa agilità. La verifica è comunque che le scuole di specialità possono stare benissimo sull'arco di due anni e, per quello che riguarda la possibilità del lavoro, questo è uno strumento importantissimo. Quindi la prima cosa è andare a verificare se è vera questa cosa dei quattro anni.
L'altra cosa: una serie di paletti incredibili altamente vigenti, che anche qui bisogna chiedersi chi li ha inventati. Da dove salta il discorso delle ottocento ore annuali? Come se il numero di ore qualificasse la formazione delle persone. E'un falso. Secondo me, il numero delle ore era un sistema per distribuire il numero di insegnamenti e di incarichi tra un sacco di persone. La specialità e la formazione professionale hanno altre caratteristiche. Noi facciamo formazione degli anni'50, voglio dire che noi sappiamo benissimo che la maturità per cui si formano le persone non ha niente a che fare con le attività didattiche tipiche dell'università. Di nuovo, non nel senso che non si possiede una parte di competenza che costruisca quella conoscenza, ma quasi tutto è basato sull'attività di gruppo, sugli incontri specifici, ecc.
Ora: 800 ore!Vuol dire fuori da tutti gli schemi internazionali. Ho qui tutti i progetti europei: intanto all'estero non vengono a vedere il numero delle ore, se si vanno a individuare non si superano le 350-400 ore.
Un altro problema: quale è il margine vero dell'autonomia' Cioè, se l'autonomia è una vera autonomia, potremmo essere benissimo in grado, in tempi brevi, di organizzare delle scuole di specialità che si organizzano secondo queste prassi ma che non anno anche bisogno di avere tutti questi vincoli. Ma di fatto le abbiamo già: io ho degli esempi in gazzetta di scuole di specialità riconosciute, dove non c'è niente sull'ordine da seguire, ci sono solo alcune indicazioni sugli insegnamenti.
Per quanto riguarda il problema delle scuole di specializzazione aperte solo agli psicologi, che possiamo dire?
Prof . Cigoli: Questo è un tema delicato: come facoltà di psicologia noi dobbiamo aprire le scuole di specializzazioni solo per gli psicologi? IO dico di no, e torno al discorso di prima. Cioè, secondo me, dobbiamo offrire delle varie specialità facendo degli esempi concreti: per esempio il tema dell'orientamento scolastico e professionale non può essere un ambito esclusivo degli psicologi.
Ci sono delle attività che vengono fatte dal mondo della scuola che possono benissimo, e in maniera valida, essere effettuate dagli insegnanti stessi. Allora, e questo è il problema di fondo, bisogna vedere se ci sono alcuni filoni tipicamente psicologici e pensare a una scuola di specialità che abbia quel tipo di indirizzo all'interno.
Ma, per esempio, anche la mediazione familiare non possono riservarla solo agli psicologi, perché c'è tanto di costruzione a livello internazionale che apre questa possibilità di professione a molte altre persone. Io non posso dimenticare che vivo in un mondo a livello internazionale, dove assistenti sociali laureati in giurisprudenza e altri ancora possono fare una serie di attività. Di nuovo, dove posso cercare la specificità del lavoro psicologico' A mio modo di vedere, per esempio dall'ambito delle perizie salta fuori immediatamente e questo è un ambito prettamente psicologico. Non posso fare la stessa cosa sull'ambito della mediazione familiare. Posso fare un altro esempio: se ci fosse un progettino per fare vedere la diversità dei progetti sulla psicologia giuridica, su questa noi abbiamo la possibilità di attivare immediatamente quattro indirizzi, il che vuol dire fare il primo anno in cui si costruisce la base comune e il secondo anno in cui si concentrano gli ambiti specifici.
Quali possono essere le vie da seguire?
Prof . Cigoli: Io ho pensato ad altre strade, per esempio che le scuole di specialità riconoscano un nucleo fino alla percentuale di accessi riservato agli psicologi, in certi ambiti fino al 60% riservato agli psicologi. Non posso, quindi, riservare queste specializzazioni solo agli psicologi.
Il problema è che se faccio dei collegamenti internazionali io devo riservare il 20% delle iscrizioni anche a persone che vengono da altri Paesi europei. Se non lo faccio, se non entro nei programmi europei, non avrò dei riconoscimenti pubblici. E' interessante sapere che se faccio una cosa qui verrà riconosciuta in Inghilterra, in Germania, in Francia, piuttosto che in Spagna o in Portogallo. Secondo me ci sono due ordini di problemi: il primo è costituito da una certa rigidità entro la quale noi abbiamo cercato di muoverci trovando delle soluzioni credibili e agibili, ma che non devono giocare la sostanza, che si tratta di un percorso professionale dove la gente viene fuori con una specialità e non con degli altri insegnamenti. L'altra cosa è: che cosa può essere tipicamente degli psicologi e cosa può essere riconosciuto come attività psicologica che non necessariamente coincide con la sua professionalità? Secondo me questa cosa va tenuta presente, perché queste logiche avvengono a livello nazionale e internazionale.
L'ultima proposta riguarda la psicologia clinica: la specialità di psicologia clinica è di nuovo sui due anni e gli specializzati possono entrare benissimo sulla tematica della clinica dei rischi familiari, la tematica dei gruppi, la sessuologia; recentemente ci sono state ampiamente richieste dai servizi pubblici delle persone competenti in questo ambito, e non ce ne sono. La cosa interessante sarebbe quella di distinguere l'attività clinica dalla psicoterapia. Anche qui si pensava, con quelli di Torino che stanno organizzando la scuola di psicologia della salute, che cosa si può fare. Per esempio una cosa interessantissima è sapere che a Torino c'è una scuola quadriennale che può abilitare anche a lavoro di psicoterapeuta. Allora noi come università facciamo delle scuole biennali. E chi ha intenzione di diventare psicoterapeuta, con convinzione, noi lo possiamo indirizzare alla psicologia della salute che ha anche queste caratteristiche. Ecco perché, secondo me non bisogna incaponirsi troppo sul tema della psicologia clinica, perché li richiamo continui e costanti conflitti.
Prof . Perussia: Dal punto di vista della realtà che conosco meglio, cioè la mia, c'è uno sforzo enorme di battere il chiodo per inserire una specializzazione, che nella forma attuale richiede tipo dieci approvazioni, ed è comunque un processo lentissimo. L'interazione con l'Ordine: è un' interazione molto più quotidiana e concreta di quanto si possa pensare. Io conosco realtà accademiche in cui– stavo facendo il conto prima pensando a dei campioni- sei professori su dieci possiedono una società privata che fa dell'attività, oppure, se ci si mettono anche quelli che fanno della clinica, nove su dieci.
E questa è una situazione del tutto normale, quindi il legame tra professione e università e degli universitari che lavorano anche nella professione. Caso raro, ma può capitare, l'interazione avviene in situazione del tutto informali ma molto pratiche, come per esempio, per strada. Sul piano della clinica, in realtà e per motivi non divergenti dal mondo psicologico, noi abbiamo un ordine dei medici che non abilita dei laureati in medicina e in chirurgia né all'esercizio della medicina né all'esercizio della chirurgia. Ma li abilita soltanto a fornire alcuni generici consigli sulla salute e a fare esami di laboratorio che si chiamano anche test. Questa è la legge.
Allora noi abbiamo isolato l'unica nostra caratteristica su cui tutti interiormente siamo convinti che ci sia accordo all'interno del mondo psicologico, e abbiamo tolto agli psicologi, inventandoci, perché siamo legati all'Ordine dei medici, l'elenco dei psicoterapeuti. In breve, a proposto delle scuole di specializzazione